Il Camerun di Davide Bonaiti

OBLOM uno

 
  "Il faut rêver pour tenir debout. Il faut se donner des yeux aussi profonds qu'une mémoire" recitano due versi del poeta camerunense Paul Dakeyo. Forse si può dire che la dimensione del sogno evocata da Dakeyo, congiunta a quella ortogonale dell'incubo, abbia dato origine a un vasto spazio interpretativo nel quale si è collocata buona parte del
pensiero letterario e artistico occidentale sull'Africa. Sogno luminoso ed edenico, di innocenza e di verità, da un lato, e incubo confuso e spaventevole, la cui più celebre espressione letteraria è la metafora conradiana della "immense darkness" con cui si chiude "Cuore di tenebra", dall'altro. Di questi due poli, il viaggio imaginifico di Davide Bonaiti in Camerun, paese attraversato da forti tensioni sociali e politiche, dal passato coloniale eterogeneo, sembra orbitare intorno al primo. E la ricerca estetica del fotografo, che si orienta verso atmosfere e toni arcadici – come nell'immagine, di grande bellezza, dei bambini pigmei al fiume o in quelle dei pescatori e delle loro reti, figure, peraltro, potenzialmente evocative di significati religiosi – si sposa con una ricerca più profonda della memoria ancestrale dei luoghi su cui si posa il suo sguardo, quasi con "des yeux aussi profonds qu'une memoire", che raggiunge risultati di notevole intensità metaforica – come nella fotografia dell'uomo albero. Accanto a queste abbiamo poi altre immagini, pervase come le prime da una luce onirica, in cui Bonaiti esplora con delicatezza i sentimenti umani: la semplicità dignitosa di un pasto, la commozione di una maestra e l'incantesimo che, scendendo da qualche regione di un cielo irreale, ha stregato un'aula di scuola elementare.

  Vi sono poi fotografie di Bonaiti nelle quali la ricerca di archetipi e di forme primarie della complessità umana è sostituita da uno sguardo più sensibile alla modernità postcoloniale del Camerun e l'arte del fotografo sembra allontanarsi dall'attrazione del polo positivo della diade di cui parlavamo prima. In una via di Yaoundé, davanti alle bancarelle e agli ombrelloni di un piccolo mercato, un tavolo da biliardo trasportato all'aperto; un giocatore medita sullo schema del gioco, la stecca in mano, un cappello a visiera da professionista sul capo; attorno a lui, gli astanti guardano l'obiettivo che sta raccogliendo i raggi di luce che li fisseranno in quell'istante, smarriti in un pomeriggio qualsiasi, in una strada anonima, stretti intorno al loro strano tavolo da biliardo. Un raduno di motociclisti: in secondo piano, alle spalle del vanitoso e bizzarro motociclista che domina l'inquadratura, il giubbotto di un uomo riporta il nome della ditta "Hölemann - Sanitär und Heizung", sfuocato e surreale particolare, gettato dal caso nell'immagine, che richiama involontariamente alla mente dell'osservatore il periodo tedesco dell'occupazione coloniale del Camerun. E poi lo straordinario gruppo del mercato del pesce: sullo sfondo un'umanità di età diverse, di condizioni diverse, assorta, mentre attende il proprio turno di acquistare il pesce, in pensieri e dialoghi interiori diversi; in primo piano il pescivendolo con la mano destra impegnata a reggere il vassoio dei pesci e la sinistra ferma a mezz'aria in un gesto solenne, da predicatore; sta vantando la bontà del suo pesce, ma il suo sguardo sembra volerci dire qualcos'altro.


Fabrizio Bonci